Qualche anno fa ho trascorso un mese in Kenya, in uno dei tanti centri podistici del Paese. Quando uscivo a correre con i runner locali, cominciavamo sempre ad un’andatura incredibilmente lenta.
Le prime volte non riuscivo a credere a quanto piano andassimo. E tra i miei compagni c’erano alcuni tra i migliori atleti del mondo! Due di loro erano scesi sotto ai 13′ nella 5 Km, e molti dei ragazzi delle superiori con cui mi allenavo avevano già gareggiato per la loro nazione in competizioni internazionali.
Ma a un certo punto, inevitabilmente, il ritmo aumentava.
Succedeva in modo naturale, non perchè qualcuno, dopo avere corso un paio di chilometri, guardasse l’orologio e dicesse: “stiamo andando troppo piano, meglio accelerare”.
Dopo circa un quarto d’ora mi accorgevo che stavamo andando più veloci, anche se lo sforzo percepito non era cambiato: considerato che correvamo a quasi 2.500 metri di altitudine, e che normalmente vivo nel Maine, cioè sul livello del mare, ero perfettamente consapevole degli effetti dell’altitudine sullo sforzo percepito.
Nell’ultimo terzo dell’allenamento andavamo a pieno ritmo, e nei minuti finali tenevamo un’andatura quasi da gara. Non sto dicendo di chiudere ogni allenamento con uno sprint, ma quelle sessioni in Kenya sono state come una rivelazione per me.
Non c’era mai un momento in cui potessi dire: ecco adesso sto facendo più fatica. Giorno dopo giorno, alcuni tra i migliori atleti al mondo lasciavano che fossero i loro corpi a dire loro quando era il momento di rallentare e quando invece bisognava accelerare.